Focus NGE | Etica delle relazioni e struttura del mito – 11

Neon Genesis Evangelion, Etica delle relazioni e struttura del mito a cura di Aldo Pisano. Etica e struttura delle relazioni in Neon Genesis Evangelion | Parte 9

Partendo dai livelli più esterni: l’altro fuori dall’io, il corpo come altro, l’io come potenzialmente altro da sé, si arriva a condurre quel lavoro di “scavo”, accedendo nell’oscurità più profonda, nei pensieri e nei modi di essere più turpi dell’io, per poi risalire progressivamente, in un processo evolutivo continuo che implica lotta, scontro, forza e sacrificio.   

Così, Shinji, nelle ultime puntate, riuscirà a trovare se stesso e a riconoscere la necessità delle differenze come fondamentali per la strutturazione dell’io. La sua scelta, il suo atto etico definitivo – di fronte al Progetto della Seele di fusione delle individualità e delle persone in una coscienza collettiva – sarà quello di riconoscere il valore delle identità personali, restituendo legittima all’esistenza in quanto esistenza individuale, non fusa.

Infatti, è essenziale che l’io si trovi radicato in un contesto, in un ēthos dal quale derivano i mezzi primari per il processo di costruzione dell’identità, scandendo il passaggio dall’eteronomia all’autonomia. L’identità passa in revisione, si costruisce, si ridefinisce in maniera critica soprattutto entrando in contraddizione con quel nucleo di memoria collettiva dal quale deriva. Anche per la contrapposizione è necessaria la presenza dell’altro: non c’è opposizione, diversificazione, costruzione dell’io se non si pone un tu dal quale distinguersi e con il quale entrare in conflitto, sia anche un tu “collettivo”.

Conducendo questa operazione «il soggetto può essere aiutato da altri, ma non può essere sostituito: il bene non può essere predeterminato dall’esterno e trasmesso da parte di qualcun altro»[1]. Dunque, l’altro c’è, sia esso individuale o collettivo, ma nel lavoro di ricerca di sé svolge un ruolo di accompagnamento da cui deriva un necessario momento di distacco, che conduce il soggetto verso la propria autonomia[2].

Scrive Antonio Da Re:

La conoscenza di sé, l’autonomia, il riconoscimento della propria limitatezza conoscitiva e la disponibilità alla ricerca sono gli elementi che contraddistinguono la cura di sé da parte del soggetto. L’invito che qui proviene dall’insegnamento socratico consiste nel mostrare quanto sia rilevante, e insostituibile, l’interrogazione di senso da parte del soggetto. Questa prima via socratica è in qualche modo preliminare alla seconda, che permette di criticare l’ēthos vigente e di individuare il cosiddetto «punto di vista morale». In altri termini: interrogarsi sulla bontà o meno di un determinato comportamento o esprimere una valutazione critica su un costume vigente richiedono propriamente una preventiva riflessione personale, frutto di un atteggiamento di ricerca che ha mai fine[3].

Così entra in gioco una paradossale constatazione: l’esercizio della libertà personale si riferisce a una appartenenza a qualcosa esterna al soggetto. Questo significa che la libertà del soggetto nasce da un suo originario radicamento. Questo paradosso concettuale, fa riferimento a un’ altrettanto paradossale analisi etimologica:

È quindi chiaro che la nozione di ‘libertà’ di costituisce da partire dalla nozione socializzata di ‘crescita’, crescita di una categoria sociale, sviluppo di una comunità. Tutti quelli che sono usciti da questa ‘matrice’ da questo ‘ceppo’, hanno la qualità di *(e)leudheros [ da cui il gr. eleútheros].

[…] Il senso primitivo non è, come si sarebbe tentati di pensare, ‘liberato da qualcosa’; è quello di appartenenza a una razza etnica designata con una metafora di crescita vegetale. Questa appartenenza conferisce un privilegio che lo straniero e lo schiavo non conoscono mai[4].

In maniera inquietantemente affine a tale ragionamento, la ricerca linguistica di Benveniste approda ad un altro illuminante risultato:

Al suo appartenere al gruppo – di nascita o di amici – l’individuo deve non solo l’essere libero, ma anche l’essere sé stesso: i derivati del termine *swe, gr. idiōtes ‘privato’, lat. suus ‘suo’, ma anche gr. étēs, hetâiros ‘alleato, compagno’, lat. sodalis ‘compagno, collega’, lasciano intravvedere nello *swe primitivo il nome di un’unità sociale in cui ogni membro scopre ‘sé stesso’ solo nel suo ‘essere con gli altri’[5].

Questa analisi etimologica assume un forte rilievo, in quanto la radice *swe– è comune sia per quanto riguarda il senso dell’appartenenza ad un contesto storico-sociale, sia per quanto riguarda la non-appartenenza a tale contesto. Ora, nel primo caso, il valore della libertà fa riferimento alla possibilità di godere di determinati diritti, ai quali sono un cittadino che è radicato in una tradizione può accedere. Quindi è libertà come esercizio di un diritto. Ovviamente, però, questo non può assumersi come idea di “libertà” inteso nel senso attuale e più inflazionato del termine, quindi in senso anche degenerativo come libertinaggio o “fare ciò che si vuole”. In questi termini la libertà come appartenenza si sposa bene con l’idea hegeliana dello Stato come “sistema della libertà realizzata”[6]

Ora, nella seconda derivazione, in cui il concetto di “libertà” muove nella direzione del sé e quindi della soggettività, emerge la funzione concettuale del lemma inteso come “indipendenza”. Allo stesso tempo, però, lo riporta verso il suo primo significato di radicamento e appartenenza. Infatti, un’indipendenza è sempre indipendenza da (qualcosa), da cui la derivazione necessaria di una soggettività autonoma da una eteronoma. L’autonomia deriva dall’eteronomia. La necessità di indipendenza nasce da una dipendenza. Così, in questa movenza enantiodromica in cui l’una trascina verso l’altra, la libertà nasce prima come volontà e poi come atto di sganciamento dal contesto. Questo significa assumere anche una distanza critica da quell’ambiente da cui si proviene, e ciò legittima la riflessione sull’ēthos precedentemente esposta citando Antonio Da Re. In qualche modo, l’ambiente eteronomo – la dimensione socio-culturale in cui si è radicati e si cresce – offre gli strumenti necessari al successivo distacco. Questo è di facile riconduzione alla questione psicoanalitica, se posta in relazione alla originaria appartenenza del figlio alla madre e al successivo momento di distacco dal simbolico grembo materno, dalla casa natia. Non a caso, riferendosi al paese di origine, si parla di madre patria. Da qui la conseguenza eticamente necessaria per cui, il “sé” libero è anche un sé con e per l’altro:

Se si rivedere ora l’insieme delle derivazioni che sono fondate sul tema *swe, si osserva che esse si suddividono in due gruppi concettuali. Da una parte *swe implica l’appartenenza a un gruppo di ‘suoi propri’, dall’altra specializza il ‘sé’ come individualità. L’interesse di questa nozione è evidente, sia per la linguistica generale che per la filosofia. Qui si libera la nozione di ‘sé’, del riflessivo. È l’espressione di cui usa la persona per definirsi come individuo e per riferirsi a ‘sé’ stesso. Ma nello stesso tempo questa soggettività si enuncia come un’appartenenza. La nozione di *swe non si limita alla persona in se stessa, essa pone all’origine un gruppo ristretto quasi richiuso su di sé[7].

Continua…


[1] A., Da Re, (2010) Le parole … op. cit., p. 11.

[2] Cfr. Kant, (1784) Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, in Kant. Scritti politici, tr. it. di G. Solari e G. Vidari, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, UTET,  Torino, 1995 ( 3a ed.).

[3] A., Da Re, (2010) Le parole … op. cit., p. 12. Definire il processo d’individuazione che conduce al compimento della costruzione del Sé significa comprenderne basilarmente (i) la sua profonda relazione con la memoria (ii) la sostanziale impossibilità di compiutezza: due aspetti che complessivamente si integrano nel processo di costruzione della soggettività.

In riferimento alle forme di memoria cognitivamente catalogabili, quella che è più vicina alla definizione del processo di individuazione è di certo la memoria autobiografica. In riferimento al processo autobiografico, scrive Rosario Diana, le principali caratteristiche risultano essere: (a) incompiutezza e (b) provvisorietà [R. Diana, Autobiografia – Memoria – identità, in G. Kurotschka, R. Diana, M., Boninu (a cura di), Memoria. Fra neurobiologia, identità, etica, Mimesis, Milano-Udine, 2010, p. 129]. Queste due connotazioni sono costitutive del processo di costruzione dell’io che viene messo in opera mediante una narrazione di senso, in cui risulta preliminarmente necessaria un’attività di recupero mnestico e di creazione di una rete di ricordi corrispondente a una rete di significati.  Analizzando (a), si evidenzia che questo processo fondamentale per la costruzione dell’Io [Ichbildung] vive di un costitutivo limite ontologico, ossia quello di essere incompleto.

[4] E., Benveniste (1969), Il vocabolario … op. cit.,  p. 249.

[5] Ivi, p. 247.

[6] Cfr. F., G., Hegel (1821) Grundlinien der Philosophie des Rechts, tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 2004 (9a ed).

[7] E., Benveniste (1969), Il vocabolario … op. cit.,  p. 255.

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